Gli studi condotti finora hanno evidenziato dati difformi, ma in conclusione sembra che un paziente COVID-19 su cinque abbia presentato un evento tromboembolico.
Una metanalisi su circa 1800 pazienti in terapia intensiva concludeva con un tasso diagnostico del TEV di 12.7% nei pazienti COVID critici, con un rishio 6 volte superiore di embolia polmonare rispetto ad una ARDS non COVID-correlata.
Di seguito le (poche) certezze che abbiamo su TEV e COVID
L’attivazione della coagulazione sembra incentrata nell’infiammazione endoteliale diretta indotta dal COVID attraverso il legame con il recettore ACE-2, con associata tempesta citochinica ( rilascio di citochine infiammatorie, come IL6 e TNF, che chemochime, come IL8, lingandi) che genera una reazione a cascata auto-potenziantesi in grado di attivare monociti, neutrofili, piastrine e altre cellule endoteliali.
Lo stato proinfiammatorio evolve naturalmente in attivazione di fenomeni trombotici locali, come testimonia la crescita parallela di IL-6 e fibrinogeno.
L’aumento del di-dimero è un segno di attivazione della coagulazione, ma ha una bassa specificità sulla presenza di un processo trombotico attivo.
L’allungamento del PT sembra correlarsi con la gravità della malattia, ma come tutti gli altri indicazioni plasmatici della coagulazione, vanno ponderati nel singolo paziente e non ci sono utili nelle decisioni terapeutiche.
Cancro, immobilizzazione, concomitanti patologie cardio-polmonare, età avanzata, espongono al paziente COVID ad un rischio maggiore di TEV.
A questi recentemente sembra aggiungersi l’obesità, come se il tessuto adiposo fosse un serbatoio per la replicazione virale.
E’ pertanto indispensabile stratificare il rischio tromboembolico in tutti i pazienti affetti da infezione COVID ricoverati.
Tuttavia, la profilassi anti-trombotica standard sembra non ridurre in maniera significativa l’incidenza del TEV, probabilmente perché i meccanismi fisiopatologici alla base della trombosi nel COVID non sono completamente chiariti, e probabilmente dovremo trovare target diversi su cui agire per spegnere l’incendio endoteliale.
Vi propongo le conclusioni analizzate da Sam Schulman che ha valutato le recenti 10 linee guida/consensus di task force multisocietarie sull’argomento:
· Quali pazienti profilassare per il TEV?
Tutti i pazienti COVID ricoverati per insufficienza respiratoria, o riscontro di positività COVID in intercorrente altra malattia medica acuta.
· Che tipo di profilassi?
EBPM (Farmacocinetica più prevedibile, mono-somminstrazione, meno HIT), UNF se IRC grave. Compressione pneumatica se alto rischio emorragico.
· Profilassi post-dimissione?
Si, per 1-2 settimane. Pazienti COVID hanno un rischio di TEV in post-dimissione 60% maggiore rispetto a pazienti con patologia medica acuta.
· Dosi terapeutiche di EBPM per la profilassi del TEV?
No. I dati aggregati da numerosi studi condotti finora ( sia retrospettivi che prospettici, sia in pazienti anticoagulati per FA, sia pazienti gravi in terapia intensiva) ci dicono che gioco non vale la candela. Il rischio di sanguinamento aumenta di oltre 3 volte, senza un significativo miglioramento sulla mortalità o incidenza di TEV. Dosi terapeutiche solo se diagnosi di TEV o altre indicazioni come FA o valvole cardiache.
· Terapia nel TEV acuto nel paziente COVID ?
EBPM a dosi terapeutiche per pazienti emodinamicamente stabili (>95% dei casi) , ENF se instabilità emodinamica o IRC grave (Cl creatinina <30 ml/min). Considerare DOAC solo se assenti interazioni farmacologiche, LAC (frequente nel COVID!) , IRC. Trombolisi, come sempre, solo se paziente instabile con sovraccarico ventricolare dx e aumento Troponina
www.diegotonello.com
Comments